giovedì 26 aprile 2012

Il giglio della Pace

Il panorama che si poteva vedere, in quella che era stata la piazza principale del paese di Speme, era veramente desolante: la Chiesa Parrocchiale, in stile Barocco, che era stato vanto della cittadina e dove, la domenica, tutti i cittadini si radunavano per onorare la Festa, era rasa al suolo. Sul Sagrato rimaneva solo un cumulo di macerie ancora fumanti dai bombardamenti della battaglia appena finita.
Non v’era più traccia delle vie, un tempo trafficate e percorse da veicoli di ogni sorta, degli alberi che frondosi e ombreggianti costellavano il viale principale del paese: Corso della Pace.
Macerie ovunque, ferri contorti, mobili rotti che spuntavano tra i blocchi di cemento; qua e là un libro strappato, una cornice rotta con la tela ancora penzolante da una parte, la testata in ferro di un letto, un peluche bruciacchiato.
La guerra era passata di lì e questi erano i segni inequivocabili di questo passaggio, un desolato paesaggio di distruzione e di morte.
Proprio in fondo alla piazza principale c’era, prima dello scoppio della guerra, un magnifico giardino pieno di fiori, alberi e cespugli con una bella fontana nel centro dove i bambini giocavano e si rinfrescavano nelle giornate estive. La fontana era contornata da panchine in legno verdi che ospitavano le mamme e gli anziani del paese occupati a trascorrere qualche ora guardando i piccoli e sognando un futuro felice e sereno per loro.
Poi, un giorno, per la incurabile voglia di potere che prende gli uomini, era scoppiata la guerra, anni di dignitosa ma povera esistenza erano stati interrotti da un oceano di fuoco, di sangue, di lutti.
Ormai di abitanti, nel piccolo paese di Speme, ne erano rimasti ben pochi, qualche centinaio su più di cinquemila che erano prima della guerra.
Molti erano sfollati nelle campagne, gli uomini abili erano stati arruolati e partiti per il fronte, parecchi erano morti, travolti da quel destino crudele a molti per colpa di pochi.
C’era qualcuno che, nonostante tutto, aveva voluto rimanere a Speme, come a proteggerla da altre offese che potessero venirle, dai saccheggi di sciacalli che ogni tragedia umana fa uscire dalle tane.
Remo, il vecchio Remo ormai di guerre ne aveva già viste nella sua lunga vita, a 70 anni suonati aveva anche combattuto, da giovane, per proteggere il suo paese, la sua patria dalle orde di invasori che l’avevano sporcata.
Ora, vecchio e ormai stanco, rimasto solo al mondo, non aveva voluto lasciare la sua casa, miracolosamente rimasta intatta alla periferia del paese anche se con i muri un poco sbrecciati dalle schegge, e si aggirava ogni giorno per le strade in cerca di qualcosa da recuperare sia per una sorta di rispetto e memoria per i posteri sia anche, più prosaicamente, per trovare qualche sostentamento alla sua situazione.
Qualche confezione di alimenti a lunga conservazione riusciva ancora a trovarli là dove c’era lo spaccio alimentare della signora Pina e, solo in quello che era stato lo splendido giardino riusciva a procurarsi l’acqua potabile; miracolosamente la fontana, o quello che ne restava, buttava ancora dalla bocca del delfino in granito posto in centro alla vasca.
Aggirandosi per il giardino pubblico, Remo sentiva la nostalgia delle grida di gioia dei bambini e delle dolci ninna nanne delle mamme che, sedute sulle panchine, cullavano i piccolini nelle carrozzine.
Ah quanto avrebbe voluto rivedere ancora una volta almeno un bambino felice, un sorriso infantile. Avrebbe dato volentieri il tempo che gli rimaneva da vivere pur di rivedere un giovane fiore sbocciare ancora in quella desolazione.
Così pensava, quel pomeriggio di fine marzo, vagando per la piazza principale attento a ogni particolare che colpiva il suo sguardo attento con la speranza di trovare ancora qualcosa in mezzo alle macerie che gli potesse servire.
La piazza era silenziosa, ormai da giorni non aveva incontrato nessun altro abitante, neanche gli uccelli: passeri, merli, cince, ballerine e tortore, che di solito cantavano sugli alberi del giardino, erano rimasti in paese.
E come avrebbero fatto, pensò, a vivere, a parte l’acqua della fontana non c’era più un filo d’erba, un fiore che attirasse insetti di cui avrebbero potuto nutrirsi.
Dopo lungo girovagare si fermò vicino alla fontana e sedette su quello ch’era rimasto di una panchina.
Era stanco e demoralizzato, non sapeva più come avrebbe potuto continuare a vivere così non tanto per il cibo che non mancava, ma per il gelo che aveva nel cuore, lo scoramento che lo prendeva ogni volta che si guardava intorno.
Alzò gli occhi al cielo, di uno splendido azzurro e pieno di sole in quella giornata calda di fine marzo, e pregò, pregò come mai aveva fatto perché la Pace tornasse sulla terra, perché gli uomini rinsavissero e tornassero fratelli.
Mentre era così assorto sentì una risata cristallina provenire da dietro ad un mucchio di alberi sradicati e contorti, una volta pieni di fiori in questa stagione, proprio dall’altro lato della fontana.
Quella risata, fresca e musicale, gli riempì il cuore e, come un dolce tepore primaverile, iniziò a riscaldargli l’anima.
Subito si alzò in piedi e guardo verso quell’angolo del giardino: con meraviglia si accorse di un bambino dai vestiti strappati e sporco di polvere che, chino, verso il terreno agitava le manine felice.
In due passi frettolosi, per quanto gli consentivano le sue stanche gambe, si avvicinò: il bambino, un ragazzino dai capelli biondi e magrissimo, alzò gli occhi verso di lui, degli splendidi occhi che rispecchiavano l’azzurro del cielo, continuando a sorridere e indicando con la mano tesa per terra, in mezzo ai tronchi straziati, un  fiore, un bianco Giglio era sbucato come per magia dalla terra tormentata e si ergeva spavaldo in mezzo alle rovine sprigionando luce e profumo.
Allora Remo, con le lacrime agli occhi, prese il bambino tra le braccia, lo baciò sui capelli e finalmente capì che la PACE era tornata.







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